E così alla fine te ne sei andata. Mi ci avevi fatto quasi credere, che non fosse arrivato ancora il momento. Ma forse è stato meglio così. Andarsene prima che sia troppo tardi. Prima di non farcela davvero più e che i giorni diventino solo una lunga agonia. Andarsene lottando come una vera guerriera che non si lascia abbattere dalla sofferenza e continua a vivere come se nulla fosse. Morire in piedi.
Ci avevi quasi fregato tutti. Con quella inimmaginabile forza e quello sguardo sicuro a voler dire “beh, che avete daguardare? Io sto bene”.
Sono davvero tante le cose che ho imparato da te, Rebecca. Ma ora che non ci sei più, da solo un giorno, hocapito sul serio quanto fossi speciale. Non che non lo sapessi da sempre, sia chiaro. Ma sai che i distacchi impongono riflessioni. E mi sono venute in mente una marea di cose. Tutte imparate da te.
A volte vorrei avere la capacità di affrontare la vita come l’hai affrontata tu. Nulla ti faceva paura. Nemmeno la malattia. Ti guardavo e mi chiedevo “ma come fa?”. A resistere, a non avere mai lo sguardo sofferente. Mai un lamento.
Quando volevi qualcosa, tu la ottenevi. E se avevi deciso che ti andava di giocare un po’ con la tua adorata pallina, trovavi quella pallina. Anche l’altro ieri, quando lo leggevo nei tuoi occhi che non ce la facevi più, il fumetto sopra la tua testa diceva: “che siamo matti vorresti davvero non farmi giocare? Perché se è così io ti tiro giù tutto, fino a che non me la trovo da sola questa benedetta pallina che hai nascosto”. E così hai fatto. Mi chiedevo anche come facevi a non perdere mai l’appetito. E come hai fatto la sera stessa prima di lasciarci a non fallire neanche un colpo nel nostro solito gioco serale dell’ afferrailcroccantinoalvolo. Abbiamo fatto un buon punteggio, anche se il tuo record non è stato battuto. Sono convinta resterà tuo ancora per molto tempo. Come diavolo facevi a non mollare mai la presa. Che tempra, che tenacia. Ne avessi io solo la metà.
Me l’hai insegnato bene il significato di questa parola. E lo hai fatto senza mai doverne usare altre, di parole. Come tutti i grandi maestri dovrebbero fare. Solo con il buon esempio. Osservandoti ho capito davvero cosa significhi avere tenacia. Credere che se vuoi qualcosa e insisti ce la puoi fare. Dovessi passarci una giornata intera, o due o anche di più. Ho capito insieme a te e a tutti i miei altri boxer che cosa voglia dire avere grinta. Anche perché per guadagnarmi il diritto di insegnarti qualcosa, dovevo per forza tirarle fuori tutte queste doti. Possoaffermare che tu sei stata mia maestra prima che io lo diventassi perte. Niente male come riflessione. Un po’ marzullesca, ma ci sta. Quando nasci, vivi e cresci con 300 boxer che girano per casa a un certo punto o ti svegli e diventi tenace come loro o sei fritto.
Questo mi avete insegnato e mi insegnate tutt’ora. E in particolar modo tu, Rebecca, che sei stata davvero speciale. A insistere e insistere e ancora insistere. A vivere il più possibile con gioia ed energia. A lamentarsi poco e sopportare con forza anche il dolore fisico. Certo su quello, non mi azzardo nemmeno lontanamente a paragonarmi a te, che non sentivi davvero niente. E che sei stata anche una mamma fantastica. Io che ancora piagnucolo se mi sbuccio un ginocchio. L’altro giorno ero a letto con un po’ d’influenza mentre tu invece eri in giro a correre per il giardino con il tuo occhio vispo da guerriera Maori e il tuo solito temperamento instancabile e ti ho sentita, sai, abbaiarmi “alzati pappa molla!”. E mi sono alzata.
Da te ho imparato che i cambiamenti si affrontano e se si ha forza d’animo ci siabitua a tutto. Come quando sei tornata da noi in allevamento dopo 7 mesi perché la famiglia che ti aveva preso non poteva più tenerti. Te ne eri andata trotterellando senza battere ciglio e altrettanto serena sei tornata qui, come se nulla fosse cambiato. O come quando dopo una vita passata in campagna, fra la natura e la pace ti ho portata, già grande, a recitare una piccola parte su un setcinematografico. C’era davvero tanto casino su quel set. Luci, macchinari, gente che strillava. Avevo paura potessi stranirti e invece mi hai guardata e mi hai slinguazzato nell’orecchio “che ficata ma dove mi hai portato?”. Poi quando hai capito che la scena in questione era il ring di un incontro di boxe clandestino dove due pugili se le davano di santa ragione e la tua parte era quella di camminare lì intorno e abbaiare furiosa, non ci hai visto più dalla gioia. Tanto che hai afferrato e sgrullato il tappeto del ring scambiandolo per una manica. Che carattere, Rebi.
Ogni tanto anche io la sento dentro, quella stessa forza d’animo che avevi tu. Non saprei descriverlo bene, sai, potrebbe sembrare un ringhio che si accende come un motore e ti ricorda nei momenti più difficili che se ti siedi sei fottuto.
Ho imparato che quando “voglio una pallina” me la vado a prendere. Dovessi buttarmi in mezzo ai rovi o arrampicarmi su una rete altra 3 metri e saltare giù. Ho imparato che se non ci metti grinta nelle cose che fai non ne vale la pena. Che si tratti di addestrare un cane o fare qualsiasi altra cosa. Ho osservato il tuo sguardo ogni giorno, tutti i giorni. E non è mai cambiato. Non tiarrendevi mai.
Ma soprattutto, Rebecca, mi hai insegnato la cosa più importante. Ad essere la tua maestra. Quando tu lo sei stata prima per me.