Quando i buoni eravamo noi

Quando ero piccola i buoni eravamo noi. Quelli che con i cani avevano sempre pazienza. Che li amavano tutti e cercavano sempre di comprenderli, aiutarli, trovare soluzioni che risolvessero i problemi delle famiglie con un cane. Noi eravamo quelli che non riuscivano a capire come si potesse vivere senza un cane, come si potesse darlo vai (tranne per motivi seri), come si potesse dire “ma è solo un cane”. Ma noi eravamo (e lo siamo tutt’ora) quelli dell’addestramento classico. Della scuola tradizionale che addestra il cane ed educa il proprietario invece di “educare” (o provare ad educare) il cane e intortare il proprietario con fiumi di filosofiche teorie new age, come fanno (o provano a fare) quelli che, a detta della stampa e di buona parte del mondo mediatico, sono i “buoni oggi”.

Quando ero piccola io e arrivava un nuovo cliente al centro cinofilo dei miei genitori 11057523_717424218374913_249837897909180544_navevo sempre un po’ paura di come sarebbe potuta andare a finire la conversazione. In un modo o nell’altro spesso il cliente in questione cominciava a lamentarsi del cane “e io non lo sopporto più”, “è stupido, non capisce niente”, “l’altro giorno gli ho dato un sacco di botte”, “se continua così sarò costretto a darlo via”. Molti poi lo facevano sul serio. Ed io, da piccolina, in quelle occasioni ero sempre tesa perché sapevo che mio padre, addestratore classico (si proprio uno di quegli addestratori che oggi vengono faziosamente chiamati maltrattatori) si infastidiva molto durante queste conversazioni e trattava bruscamente questi insensibili proprietari di cani. Tante volte l’ho sentito arrabbiarsi e discutere mentre provava a far capire loro che i cani non sono oggetti o robot da comandare con la bacchetta, che bisogna avere pazienza, costruire un rapporto. Che non bisogna mai menare un cane e perdere le staffe perché si rovinerebbe il nostro legame senza ottenere granchè. Che invece il cane va addestrato con il giusto lavoro, il gioco e il premio e corretto con l’utilizzo dello strumento giusto, come ad esempio il collare a scorrimento che ha la stessa identica funzione del morso e le redini di un cavallo. Non impicca e non strozza nessuno. E’ solo uno strumento di sicurezza che ci aiuta a correggere velocemente gli errori e i vizi più radicati nel cane. Proprio come tirare le redini di un cavallo in fuga o dare un colpettino di sperone al cavallo per farlo partire al galoppo. Ogni strumento può causare danni se usato male. Un collare a scorrimento può strozzare se ad usarlo è un cretino. Come uno sperone può ferire e un morso lacerare la bocca di un cavallo. Sempre se ad usare questi strumenti è un cretino. Come una pettorina (il simbolo per eccellenza del buonismo cinofilo) può segare il busto di un cane. O sfilarsi e farlo scappare rischiando che vada a finire sotto una macchina. O causare la caduta del proprietario che non è in grado di reggere il proprio cane, il quale, se aggressivo, può tranquillamente andare a mordere, ferire o anche uccidere il suo obbiettivo. Ma un collare a scorrimento usato da una persona seria e affiancato ad un percorso di addestramento classico, è una sicurezza per il binomio. E’ un ausiliario che sarà tenuto sempre lento e morbido in modo da far sentire il collo del cane molto più libero di qualsiasi altro attrezzo esistente e che sarà utilizzato solo all’occorrenza, con colpetti leggeri che richiameranno all’ordine, senza strozzare o impiccare nessuno. Proprio come il morso di un cavallo che se usato da una persona seria non lacera nessuna bocca, ma comunica e richiama solo all’ordine quando ce ne è bisogno. O uno sperone che non ferisce ma stimola il cavallo, con leggeri colpetti.

Ma torniamo a noi: mio padre (sempre quell’addestratore cattivo che utilizza questo “strumento di 1426278_10202567786466022_2135308519_ntortura”) si arrabbiava davvero tanto con questa gente. Se la prendeva a cuore. Perché all’epoca il cane nelle famiglie non era amato e rispettato come ora. Le persone lo tenevano spesso in giardino a fare la guardia e stop. Non gli interessava molto altro. E al primo problema via. Tant’è che quando arrivava un nuovo cliente al centro dentro di me speravo sempre che per quella volta andasse bene. Che non dicesse: “se fa qualcosa di sbagliato io gli meno e alla prossima che combina se ne va”. E così sono cresciuta. Fra padri che non ne volevano proprio sapere di cani in casa, madri stufe dei danni che menavano col giornale e cani riportati indietro anche adulti. Si lo so forse ho enfatizzato un po’, non era proprio così tragica la situazione. Anche all’epoca c’era già tanta gente che amava i cani. Professionisti e non. Persone con una grande passione per la cinofilia. Ma vi assicuro che le situazioni che vi ho sopra descritto erano piuttosto frequenti. Ed è per questo che dico che, all’epoca, noi eravamo i buoni.

E poi siamo piombati nell’era del marketing cinofilo e del buonismo da quattro soldi. Mi sono svegliata una mattina e ho scoperto che improvvisamente i cattivi eravamo diventati10354068_684076711709664_6177754455106435442_n noi. Uno sciame errante di nuovi educatori cinofili è piombato aggressivo sulla vecchia scuola degli addestratori classici, additandoli pubblicamente come macellai e insensibili maltrattatori e iniziando uno studiato percorso di diffamazione mediatica, appoggiati furbamente da istituzioni e media che non vedevano l’ora di ripulirsi un po’ la facciata con qualche finta campagna buonista. E, ahimè, questa campagna di consensi ne ha ottenuti principalmente da parte di quella larga fetta di persone che di mondo cinofilo non ne sanno quasi niente e che facilmente si sono lasciati incantare dai lustrini e dalle belle parole di chi si spaccia come paladino degli animali e che magari con gli animali ha cominciato a lavorarci l’altro ieri. Però ha frequentato qualche buona scuola di marketing.

375009_186959944754679_879865588_nMa come? Mi è venuto da pensare, i buoni non eravamo noi? Quelli sempre in mezzo ai cani, nel fango sotto la pioggia, con il freddo e il caldo. Quelli che ci vivono da una vita con gli amici a quattro zampe e che li conoscono fin nel profondo. Quelli che si farebbero in quattro per salvare ogni cane sulla terra e che li amano come componenti della famiglia stessa. Quelli che non sopportano chi non li comprende e li tratta male. E poi si quelli che li addestrano e ci fanno sport. Proprio come a un bambino indisciplinato fa bene ogni tanto prendersi anche qualche strillone dall’allenatore di calcio.

E allora come è possibile che adesso solo perché dico di essere un addestratore tutti mi debbano guardare male? Addestravo il mio primo peluche di cane insieme a mio padre a 6 anni e ora mi tocca pure sentire la neo-diplomata educatrice di turno, che ha preso in mano un guinzaglio per la prima volta un mese fa, che mi da dell’arretrata guardandomi con spocchia dall’alto in basso?

Eh si, cari amici, perché c’è un minimo comun denominatore che accomuna gran parte di queste nuove leve della cinofilia: l’arroganza. Ascoltateli parlare, osservateli. Una 11043057_706664119450923_8523854168873398281_ncontinua alternanza di aggressivi attacchi al nemico (che saremmo noi) mascherati da improvvisi cambiamenti di tono in cui con voce pucciosa si parla al peloso di turno con un serie di smielatissimi “Fuffy piccolino che bravo che sei, vieni qui che facciamo un po’ di giochi cognitivi e dopo la mamma ti da un bel bocconcino!”. Ma per favore. Per poi tornare nuovamente in versione esorcista posseduto dal demone del buonismo cinofilo che deve combattere, a suon di voce strozzata e sguardo fulminato, la sua crociata contro gli addestratori classici che intanto continuano a lavorare beati nei loro campi ottenendo risultati costruiti con il tempo e il sudore.

E allora cari amici dell’opposta fazione fate un favore all’umanità: datevi una calmata, 183883_282673131850026_2116382253_nche se questa guerra non la iniziavate voi, nessuno di noi si sarebbe accorto della vostra esistenza e avreste potuto continuare a lavorare come più vi aggradava. Oh, poi riuscire ad ottenere risultati concreti sarebbe stato solo affar vostro. Oppure, se preferite, continuate a pretendere di rimettere a posto cani aggressivi e pericolosi con l’amore, i bocconcini e le coccole e se vi va male con una bella dose di Prozac, perché è questo che fate. Continuate ad illudere giovani con corsi dai costi esorbitanti in cui di concreto si impara poco e niente (più niente che poco). Continuate ad infamare il lavoro degli altri perché non sapete fare il vostro. Continuate pure. Noi abbiamo altro da fare. A noi piace stare con i cani.

Ah dimenticavo, una mattina mi sono svegliata e ho scoperto che eravamo diventati cattivi anche perché alleviamo i cani di razza “mentre nel mondo a migliaia muoiono nei canili o randagi”, tanto che vuoi che si sappia in giro di etologia e che vuoi che importi alla gente di informarsi su come l’allevamento delle razze sia fondamentale per mantenere il cane domestico. E che senza il lavoro dell’allevatore sarebbe rimasto selvatico e inadatto alla vita con l’uomo. E che se smettessimo di allevarlo lentamente tornerebbe selvatico e noi dovremmo rinunciare alla sua compagnia. Cosa vuoi che importi.

Ah, e ancora mi sono svegliata un’altra mattina e ho scoperto che eravamo diventati 1426296_10202559536099768_1644754788_ncattivi anche perché abbiamo una pensione per cani. Bella, spaziosa e grande tra l’altro. Ma no ma che sei matto “lasci il cane in una gabbia?”. Meglio lasciarlo a casa di qualcun altro conosciuto su questi siti internet dove la gente da la disponibilità a tenere il tuo cane quando sei fuori. Così puoi star sicuro che non scappi. L’importante è che stia in una casa al caldo con qualcuno che di cani magari ne sa poco e niente (più niente che poco) e che si è improvvisato in questo mestiere per arrotondare lo stipendio. Meglio questo che lasciarlo in una struttura organizzata con personale qualificato, veterinario sul posto ed esperienza decennale. Certo.

E che ci vuoi fare mentre tutto il mondo sembra impazzito e la new age cinofila invita tutti a boicottare il nostro mestiere noi andiamo avanti sereni. Sicuri e fieri di quello che facciamo ogni giorno, tutti i giorni da quarant’anni.

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