Lettera

Oggi vorrei proporre a coloro che visitano il nostro blog una lettera. E’ una lettera dello scrittore e giornalista, nonché appassionato cinofilo Piero Scanziani (a lui si deve nel dopoguerra la ricostruzione di una nobile razza italiana che era completamente scomparsa: il mastino napoletano) dedicata al suo boxer Arno Von Turnellem, nato a Berna il 18 Marzo 1944 e morto a Roma il 15 Maggio 1949:

“Caro amico,

ho pianto. Mi rimprovererai di aver pianto per la morte d’ un cane, mentre vi sono in Cina migliaia di uomini che muoiono ogni giorno di fame, vi sono nella stessa città dove vivo miserie grandi e tristissime. Ma per me i Cinesi stecchiti  lungo le strade delle loro guerre non sono che notizie di giornali, non realtà viventi; ma per me il povero a cui do un’ elemosina, la vedova che mia moglie soccorre sono figure effimere che mi sorgono dinanzi e poi scompaiono nel turbine della mia giornata. Arno invece era la mia giornata, era la mia esperienza costante e quando mi guardava negli occhi sentivo la sua anima dietro le mie pupille, la sentivo concretamente palpitare. Ho pianto, perché ho ricordato il momento di cinque anni orsono, quando c’incontrammo. Dapprima avevo voluto conoscerne i genitori ed avevo ammirato la possanza paterna e m’ero detto che quei lombi dovevano aver ben figliato. Poi vidi i cuccioli e subito il mio sguardo cadde su di lui. Ora un’acuta pena mi punge il cuore, ricordandolo cucciolo, tenero e goffo e pensando che poco fa ne ho composto il corpo svuotato di vita.

Ho pianto. Ora i nemici del cane non mi deridano; ho tre figli, ed egli in tante cose era simile ad un ragazzo. Ho avuto qualche amico, ma nessuno mai mi fu amico come egli era. Credeva cecamente in me, ignorando quanto io sia uomo e misero. Mi credeva divino e, allorchè pioveva era certo che fossi io a far piovere. Ho pianto, perché mi sono ricordato la sua infanzia e la sua adolescenza, le nostre passeggiate quotidiane lungo l’ Aar, la volta in cui inseguì un cervo, la volta in cui ci addormentammo vicini, nella pace di un bosco bernese. I ricordi mi hanno dato il senso del volume di tempo che trascorremmo insieme ed ora egli se n’è andato inesplicabilmente, lasciando dietro una spoglia vuota, triste come una casa disabitata.

Ho pianto ricordando la mia vanità ch’egli aveva soddisfatto. La perfezione raggiunta nell’addestramento, i trionfi nelle esposizioni, i complimenti del grande attore e del grande regista americani che l’avevano voluto con loro in un film. Piccole mie vanità di cui mi pento. Giacché trovo misera questa vanagloria, in confronto alla grandezza della fusione che era avvenuta tra le nostre anime, per lui bastava che ci guardassimo per capirci. Ed era tutto merito suo, della sua acuta anima di cane e non della mia tronfia vanità di uomo.

Ho pianto perché non ho potuto far nulla per lui quando s’ammalò, a onta della sollecitudine dei medici, a onta delle notti trascorse al suo fianco, a onta dei due mesi di lotta per tenerlo in vita, una lotta alternata da luci speranzose e da sconforti bui. Ho pianto perché nulla potei per lui quando giunsero gli ultimi istanti, quando cominciò ad ansimare ed io lo guardavo svigorito e interrogavo con il mio volto spaventato il medico ormai impotente anch’egli e tutti volevamo far qualcosa e non sapevamo cosa e fissavamo le medicine ancora sul tavolo e ci guardavamo smarriti e non v’era da fare più nulla. Quando fu morto tutta la sua breve vita mi comparve davanti, lineare e spezzata. Tornò il ritornello che m’agghiaccia da quando penso: il ritornello che dice “mai più”.

Il tempo rode con sette fauci, tutti ci rode e nulla ci lascia. Ogni cosa, ogni creatura cade in polvere un po’ ogni giorno e non ce ne avvediamo. Anche Arno se ne è andato. E’ disteso, senza vita, del tutto roso dalle fauci implacabili. Si, O Signore, questa è la legge: non bisogna attaccarsi a nessuna cosa di quaggiù. Non ai genitori, non alla sposa, non ai figli, tanto meno attaccarsi a un cane.

Si, O Signore, conosco la tua legge. Per chi la trasgredisce v’è la punizione immediata: il dolore e le lacrime. La mia mente conosce la sua legge e s’inchina, ma il mio amore no. Il mio cuore non può dimenticare lo sguardo di Arno, quello sguardo dietro il quale palpitava l’anima. Dove sei andata piccola anima devota? In quale mondo lontano sei finita? In quale landa buia? Fummo due creature che si incontrarono e si amarono. Mai più dunque ci sfioreremo, sia pure per un istante, nella corsa attraverso le miriadi dei mondi del creato? Piccola anima, come potrai star sola, tu che mi seguivi dappertutto e attendevi il mio consenso per ogni cosa? Mi vai dunque cercando anche di là, come quando passeggiavamo lungo l’Aar e credevi d’avermi perduto, mentre io per scherzo mi ero nascosto?

O piccola anima, vorrei aiutarti ma non posso, sono impotente come quando morivi, più di quando morivi. Tu stai oltre la gran porta invisibile ed io sono chiuso qui, in questo mondo di cose dure e pesanti. Prosegui il tuo cammino, anima, prosegui e lasciami indietro. Forse ci ritroveremo alla meta. Si ho pianto. E piango ancora.

(Da: Il cane utile di Piero Scanziani. Edizioni PAN – ROMA)

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